La mia esperienza dagli studi Diana in poi: cos’è cambiato?
Questo è il titolo del mio intervento al convegno “Stili di vita per la prevenzione e la cura del cancro ” avvenuto ieri 10 maggio 2023 a Torino. Ad organizzare l’evento la prof.ssa Maria Piera Mano in collaborazione con la D.ssa Aurelia Mondino che ringrazio per l’invito e per il grande lavoro che stanno facendo insieme ad altri professionisti dello staff. Alla fine del convegno è stato servito un delizioso “Rinfresco didattico” curato da Cristina Cuscunà.
Condivido con voi il testo del mio intervento che riporta una riflessione su quello che è stata la mia esperienza durante lo svolgimento dei progetti Diana:
Era il mese di marzo del 2006 quando, dopo aver inviato una lettera con tanto di francobollo, sono stata convocata dall’allora Direttore del Dipartimento di Medicina Preventiva e Predittiva[1] dell’Istituto Nazionale Tumori Dott. Franco Berrino, per un colloquio. Avevo appena finito i miei studi di Macrobiotica, iniziato gli studi in Medicina Tradizionale Cinese, e volevo applicare in cucina ciò che avevo e stavo imparando. In corso c’era il progetto Diana 3, finalizzato alla riduzione del rischio di ammalarsi di cancro in donne sane attraverso l’alimentazione, e gli studi erano basati proprio sui principi filosofici della macrobiotica.
Mi sembrava di sognare! La scienza che si occupa di alimentazione, e se ne occupa insegnando a cucinare cereali integrali, legumi piuttosto che alimenti di origine animale, verdura di stagione e del territorio; miso – tamari – umeboshi – kuzu – agar agar, tutti ingredienti che, nonostante non facessero (e non fanno) parte della nostra cultura, aiutavano ad alleviare gli effetti collaterali della chemioterapia in donne oncologiche, le quali, una volta saputo di queste attività, si avvicinavano (con non poca titubanza) al dipartimento per pranzare con noi ma soprattutto per imparare. Era il mio obiettivo: insegnare in un luogo istituzionale, con il consenso della scienza e per di più seguita dal direttore di Dipartimento, condizione che mi dava l’autorevolezza necessaria per relazionarmi alle persone aprendole all’ascolto, presupposto non semplice a quei tempi.
E’ ufficiale: l’alimentazione aiuta
Il Fondo Mondiale per la Ricerca sul Cancro (WCRF World Cancer Research Fund[2]) aveva da poco (2007) portato a compimento un’imponente opera (per conto dell’OMS) di revisione di tutti gli studi scientifici sul rapporto fra alimentazione e tumori, allo scopo di conoscere in quale misura, dieta, attività fisica e composizione corporea, potevano modificarne il rischio. Da quel momento, all’interno del Dipartimento, la voce sull’importanza dell’alimentazione in relazione alla riduzione del rischio di ammalarsi, si fece molto forte; “Cascina Rosa” divenne il punto di riferimento del mondo scientifico (non solo italiano) e la presenza dei mezzi di comunicazione era costante. Corsi di cucina, conferenze, laboratori, gli impegni erano tanti e in tutta Italia. Ma, un ma è d’obbligo, forse c’era bisogno di fermarsi un momento; forse tutte queste informazioni andavano meglio contestualizzate, incanalate, gestite con più criterio sul lungo termine. Invece sono state divulgate senza avere la benché minima idea delle variabili: impatto sociale, effetto dei singoli organismi, diverse interpretazioni personali che, senza le giuste fondamenta, spaziano spesso tra l’incredibile l’indecente.
Un cambiamento necessario: unire invece di separare
In una ricerca i singoli alimenti vengono studiati con tecniche disgregative (scissione di cui non si tiene mai conto), e anche raccogliendo tutti i dati che la scienza mette a disposizione, non raggiunge la componente unitaria di partenza (sinergia nutrizionale).
In questo modo è veramente difficile spiegare come le parti separate di un alimento si possano relazionare con la persona che le assume, la quale ha una costituzione e una condizione propria; vive in un determinato ambiente; interagisce in modo differente dagli altri sul piano emotivo; ha un proprio stile di vita; e molto altro.
Mangiamo cibo non molecole
La presa di coscienza da parte di alcuni scienziati rispetto al fatto che l’alimentazione umana non possa girare intorno all’espressione del singolo nutriente, sta diventando sempre più evidente.
Quando mangiamo un boccone di carne la scomposizione delle proteine[3] viene seguita passo passo durante tutto il processo digestivo, e i ricercatori ne conoscono ogni singolo movimento biochimico. Ma questo riguarda la digestione delle proteine e non quello della carne. Una conoscenza dettagliata nell’aspetto chimico che ne trascura la realtà fisica.
Spesso la visione del ricercatore non è ristretta a ciò che vuole sapere; nel caso specifico si guarda al cibo ingoiato come a un minestrone di singole sostanze nutritive, pronte a innescare una cascata di reazioni senza considerare l’interazione che questo boccone avrà con i nostri enzimi digestivi, che a loro volta non andranno a interagire con proteine libere, ma con un boccone masticato che, per quanto riguarda la carne, si presenterà come un ammasso indefinito di pezzi di muscoli avvolti in strati di tessuto connettivo.
L’importanza della storia
“Alle origini di ogni cosa c’è solo l’inizio:
per cercare l’identità serve tutta la storia”
Massimo Montanari
Chi di noi, andando a scuola, non si è mai chiesto il perché di questa materia: “tanto è passata, a cosa ci serve?”. In un contesto di Principio Unificatore, la storia è invece molto impartante; è custode delle nostre origini, e all’interno di essa possiamo trovare le risposte che non si conoscono nel presente. Noi siamo il nostro vissuto e la storia ci aiuta a comprendere ciò che accade attorno: sul piano sociale – economico – politico, e il cibo è tutto questo. La perdita delle sapienze antiche, qualunque esse siano e in ogni settore, hanno riportato delle conseguenze non indifferenti, aprendo le porte a false credenze e falsi miti di oggi. Cancellare il passato è come ripartire da zero, e in questo modo, del presente nulla può essere cambiato per mancanza di confronto. Riappropriarsi della storia dell’alimentazione, per quanto difficile, permetterà la ricostruzione delle nostre radici, la nostra identità, la nostra relazione con l’ambiente.
Perché è importante la storia in tema alimentare
Ci sono aspetti della storia che, se tenuti in disparte, non permettono l’adeguata comprensione del cibo, di cui sappiamo poco, e quel poco è spesso sbagliato. Prendiamo il mais ad esempio. Senza possedere nessuna conoscenza scientifica, i popoli delle civiltà Azteche e Maya, mettevano in ammollo il mais con acqua di calce[4]; processo che permetteva al mais di diventare “commestibile” e rendere più biodisponibili per la digestione, la niacina[5] e il triptofano[6] (che a sua volta si converte in niacina).
Questa “pratica”, che possiamo definire storia, non fu importata nel Vecchio Continente insieme al cereale stesso, che si diffuse soprattutto nell’Italia del Nord senza le opportune conoscenze. Così, questa alimentazione basata quasi esclusivamente di mais[7] consumato sottoforma di polenta mal preparata, per lo più mangiata priva di condimenti che potessero dare un equilibrio al valore nutritivo, diede il via alla diffusione della Pellagra[8]. Va comunque sottolineato che l’elemento scatenante non era la polenta di per sé, quanto il suo bassissimo valore nutrizionale da un punto di vista vitaminico, causato proprio dal mancato trasferimento di quella storia, che, se fosse stato portato a compimento, non avrebbe certo causato tanta sofferenza. Esempi di questo genere ce ne sono tantissimi, anche più recenti, ed è per questo motivo che il nostro sguardo deve ampliarsi, a volte rovesciarsi, per raccogliere quelle informazioni di storia necessarie. Una storia che va però rapportata al presente, con tanto di incroci, evoluzioni e mescolanze maturate nel tempo: si chiama innovazione di buon senso.
Elena Alquati
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[1] Il Dipartimento è noto come “Cascina Rosa”.
[2] Organizzazione indipendente che lavora per fornire raccomandazioni politiche basate su prove scientifiche per aiutare i governi e i responsabili politici di tutto il mondo ad adottare misure efficaci per ridurre i casi prevenibili di cancro e altre malattie non trasmissibili.
[3] L’intelligenza del fuoco – Richard Wrangham.
[4] Processo di Nixtamalizzazione Consiste nel far bollire i chicchi di mais in una soluzione alcalina. Successivamente vanno lavati e macinati così da poter produrre una farina chiamata masa. Nel processo tradizionale, come soluzione alcalina, viene utilizzata la “calce viva” (ossido di calcio, CaO), ottenuta dalla cottura di carbonato di calcio – come ad esempio le conchiglie – e la cenere di legna che contiene idrossido di potassio (entrambe sostanze pericolose e caustiche). Aggiungendo acqua, si ottiene idrossido di calcio chiamato latte di calce.
[5] La vitamina B3, chiamata anche niacina, è fondamentale per la respirazione delle cellule; favorisce la circolazione sanguigna; funge da protettivo per la pelle ed è utilissima nel processo di digestione degli alimenti. Ha inoltre un ruolo fondamentale in relazione al funzionamento del sistema nervoso. È chiamata anche vitamina PP (pellagra preventive factor) per il suo ruolo anti-pellagra, malattia in passato molto diffusa. Fa parte delle vitamine cosiddette idrosolubili, ovvero che non possono essere accumulate nell’organismo, ma devono essere regolarmente assunte attraverso l’alimentazione.
[6] Il triptofano è un aminoacido presente in molte proteine di origine animale e vegetale. Partecipa alla sintesi delle proteine svolgendo quindi un ruolo strutturale nell’organismo; è il precursore della serotonina,ormone che agisce come neurotrasmettitore; controlla l’umore a livello cerebrale e provoca la costrizione dei vasi sanguigni. Si tratta di un nutriente essenziale, che non può essere sintetizzato dall’organismo e che quindi deve essere necessariamente assunto attraverso il cibo.
[7] La polenta di mais sostituì in modo esponenziale la polenta di castagne, alimento primario nelle famiglie contadine.
[8] La pellagra è una malattia causata dalla carenza o dal mancato assorbimento di vitamine del gruppo B, niacina (vitamina PP), o i triptofano, amminoacido necessario per la sua sintesi. È responsabile di un quadro clinico detto “delle quattro D” (demenza, dermatite, diarrea e decesso). I sintomi della pellagra sono disepitelizzazione (desquamazione – perdita della pelle) delle mani e del collo, diarrea, perdita di appetito e di peso, stress, lingua arrossata e gonfia, depressione e ansia.
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